Ada d’Adamo: il dolore e le parole

Infrango una regola che, autonomamente e per correttezza, mi sono dato da molti anni: non parlare singolarmente dei libri che partecipano al Premio Strega nei mesi che precedono le votazioni. Ma la eccezionalità del caso credo che mi autorizzi per una volta a derogare, e lo faccio per parlare di Ada d’Adamo e del suo Come d’aria: scrittrice esordiente a 55 anni con questo straziante racconto dell’amore di una madre per una figlia affetta da una grave disabilità. La storia è resa ancora più dolorosa dal fatto che l’autrice stessa si è poi ammalata di un tumore metastatico ed è venuta a mancare ieri, 48 ore dopo l’annuncio dei libri che quest’anno sono ai nastri di partenza della LXXVII edizione del premio. Il libro è stato selezionato tra gli 80 segnalati ed inserito nella dozzina: malgrado la morte dell’autrice, secondo quanto previsto dal regolamento, Come d’aria prosegue la sua corsa. All’uscita di questo libro, pubblicato dalla casa editrice Elliot nel gennaio di quest’anno, sono state scritte parole molto belle: «Un libro magico» secondo Elena Stancanelli; «Una storia d’amore luminosa e ingiusta», scrive Chiara Gamberale; «Un libro toccante, straziante e pieno di vita», per usare la parole di Lisa Ginzburg. Altrettanto accorate sono le espressioni usate in occasione della morte dell’autrice e che in queste ore circolano sui giornali e nel web: «La letteratura è medicina e cura — così si è espresso il Comitato direttivo del Premio Strega — ed è di consolazione sapere che le parole della scrittrice potranno continuare a raggiungere i lettori».

E infatti, pur col timore di sembrare inopportuno, se non addirittura blasfemo, voglio dire che, accanto al dolore per la drammatica vicenda umana e familiare di Ada d’Adamo, provo un profondo dispiacere per il fatto che il suo libro rischia ora di essere letto e apprezzato solo per questo motivo e in questa chiave, facendo passare in secondo piano la qualità della scrittura e il suo valore intrinseco: è un libro bellissimo e potente, perché l’autrice aveva saputo trovare il registro giusto per raccontare con lucidità la sua devastante esperienza, senza indugiare nel sentimentalismo, ma descrivendo — aiutata in questo anche dalla sua conoscenza del mondo della danza — la “fisicità” quotidiana del rapporto con la figlia, il “corpo a corpo” con cui è riuscita a comunicare con Daria, fino ad arrivare a un’appartenenza reciproca e al loro disciogliersi l’una nell’altra, nella consapevolezza di una fine che si avvicinava.  Un libro da leggere.

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