Accedere o acquistare: una vita in affitto?

I nostri comportamenti di consumo, e più in generale i nostri stili di vita, stanno cambiando profondamente e non so se siamo davvero consapevoli della portata di queste trasformazioni. Possiamo prendere ad esempio ciò che è accaduto negli ultimi anni nel campo dell’intrattenimento: sempre meno spesso “acquistiamo” i prodotti culturali o da usare per svago, e infatti i negozi che vendono dischi musicali sono una rarità, quelli che vendono o affittano film sono spariti del tutto, le sale cinematografiche si svuotano. La fruizione dei prodotti audiovisivi passa ormai quasi esclusivamente attraverso le piattaforme (Sky, Netflix, Amazon Prime, Dazn, Spotify e chi più ne ha più ne metta). Percepiamo il fenomeno essenzialmente nella sua dimensione tecnologica (risultato dell’evoluzione di internet, delle connessioni a banda larga via satellite e in mobilità, dello streaming), ma ad affermarsi è essenzialmente un modello di business: basta fare i conti e ci accorgeremo che in un anno sborsiamo molte centinaia di euro, forse qualche migliaio, per abbonarci a queste piattaforme e per accedere a un’offerta pressoché sterminata, di cui ci limitiamo a utilizzare solo una minima parte. Il grosso del guadagno non va nelle tasche di chi produce, ma di chi distribuisce.

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Periferie della cultura, iniziative private e amministrazioni pubbliche.

L’Alta Irpinia – angolo più remoto della Provincia di Avellino, ai confini della Campania con la Puglia e la Basilicata – è ai margini, forse oltre i margini, dei circuiti culturali (e non solo). Conosco bene quel territorio, perché la mia famiglia di origine è di quelle parti e quando ci ritorno resto ammirato per gli sforzi compiuti da alcuni amministratori, qualche imprenditore e tanti esponenti dell’associazionismo e del volontariato, ma ciò non attenua lo scoramento per la “perifericità” che rimane intatta. Mi ha colpito una polemica che in questi giorni impazza sul web e nei giornali locali.

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Il costo (e i rischi) dell’ignoranza

Periodicamente torna alla ribalta il tema delle deboli competenze degli italiani. Il 58esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato il 6 dicembre scorso, ha evidenziato in modo impietoso l’ignoranza dei nostri connazionali: per il 19% degli intervistati Mazzini è stato un politico della prima Repubblica e per il 32% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo. Gli studenti italiani trascorrono in classe più ore dei loro coetanei di altre nazioni (in media 27,2 ore a settimana, un valore inferiore solo a quello della Germania, dove la frequenza media è di 28 ore) e sono quelli che in Europa dedicano più tempo ai compiti a casa: mediamente circa 2,3 ore al giorno. Ma il tempo dedicato all’apprendimento non si traduce in risultati migliori: il 44% non raggiunge competenze sufficienti nella lingua italiana e il 47% in matematica. Pochi giorni dopo, il 10 dicembre, è arrivata una conferma del nostro analfabetismo funzionale dai risultati di un’indagine OCSE sulle competenze di base (comprensione di testi, capacità di fare calcoli e di risolvere problemi in modo “adattivo”) negli adulti di 16-65 anni appartenenti a 31 paesi sviluppati: nelle diverse classifiche oscilliamo fra la terzultima e la sestultima posizione.

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