Il romanzo è solo d’invenzione?

D’estate, sotto l’ombrellone, si legge forse più del solito, mentre i premi letterari propongono nuovi titoli all’attenzione dei lettori. E si finisce col discutere sulle tendenze della produzione editoriale e della narrativa contemporanea. Un tema su cui sta montando il dibattito – innescato anche dalle caratteristiche di quattro dei cinque finalisti del Premio Strega di quest’anno – riguarda il mémoire, genere legato ai ricordi e alle esperienze dello scrittore, che starebbe soppiantando il romanzo d’invenzione. La cinquina della 77. edizione dello Strega comprendeva Come d’aria di Ada D’Adamo, che alla fine ha vinto, prevalendo di quindici voti su Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino, e a seguire Andrea Canobbio con La traversata notturna, Maria Grazia Calandrone con Dove non mi ha portata e, all’ultimo posto, Rubare la notte di Romana Petri. Tutti questi cinque libri contengono un riferimento alla realtà e in alcuni casi un ancoraggio alle vicende biografiche di chi li ha scritti: Ada D’Adamo parlava della grave disabilità della figlia e della sua malattia, che l’ha condotta alla morte nell’aprile scorso;  Postorino scrive del caso di alcuni bambini di Serajevo dati in adozione in Italia pur non essendo orfani in senso stretto; Canobbio narra di u na vita familiare segnata dalla depressione di suo padre; Calandrone racconta la sua ricerca della madre che l’ha abbandonata prima di suicidarsi; Petri ricostruisce in forma romanzata la biografia di Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de Il Piccolo Principe.

Quindi, chi più chi meno, tutti questi libri partono da vicende reali, sui cui si innesta l’opera dello scrittore, che costruisce una narrazione, adotta una forma linguistica per comunicare emozioni e sentimenti, e talvolta aggiunge – come fa Romana Petri, ma anche Rosella Postorino – il frutto della sua immaginazione. Da qui la considerazione che la letteratura non sia più il risultato della cosiddetta “ispirazione”, limitandosi a raccontare i fatti e a scrutare l’ombelico dello scrittore, alla ricerca di sventure personali o familiari. Questa sarebbe la prova della fine dell’invenzione letteraria e quindi della letteratura stessa? Non è forse verso che l’ombelicalità ha prodotto capolavori della storia della letteratura più o meno recente, come conferma anche l’ultimo Premio Nobel assegnato ad Annie Ernaux? 

In un articolo apparso oggi sul «Corriere della Sera», Paolo di Stefano parla della tendenza all’autobiografismo e a raccontare storie vere e tragiche, ma sostiene – a mio avviso giustamente, per quel che può valore l’opinione di chi, come me, non è un critico letterario – che ciò che fa la differenza in letteratura è nel “come” un autore racconta il dolore, che lo riguardi personalmente o no, che sia stato vissuto veramente da altri o che sia totalmente “inventato”. 

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