Così vicini, così lontani

La connessione in mobilità sta azzerando tante barriere e ci consente di essere perennemente inclusi in uno spazio globale, all’interno del quale ci possiamo relazionare con persone che vivono dall’altra parte del pianeta e partecipare a situazioni anche molto lontane da noi. Questa nuova forma di prossimità è molto affascinante, ma ha il suo prezzo. Il risvolto della medaglia, infatti, è il rischio di essere decontestualizzati e di ignorare ciò che avviene accanto a noi e le persone con le quali pure condividiamo lo spazio fisico e le emozioni che potrebbero derivarne.

Questa situazione viene descritta molto efficacemente in un articolo pubblicato oggi su “la Repubblica” da Ilvo Diamanti, intitolato “I miei studenti che si guardano senza vedersi”, e di cui consiglio la lettura. Ne riporto solo un breve brano: “In questo modo, il senso della relazione con gli altri quasi si perde. Perché io non vedo i miei interlocutori. Sono empaticamente distinto e distante da loro. Così il “mio” spazio si allarga a dismisura e, dunque, svanisce. Diventa sfondo, scenario impersonale. Come avviene a tutti coloro che parlano con qualcuno al telefono, pardon, smartphone, mentre camminano per strada, oppure viaggiano  -  in treno o in autobus. O in auto. Armati di auricolari: non debbono neppure alzare la testa. Guardarsi attorno. Prestano solo attenzione  -  istintiva e inconsapevole  -  agli ostacoli del percorso. Per non schiantarsi addosso a un lampione o a una vetrina. Perché, in quei momenti, durante quelle comunicazioni, sono  -  siamo  -  altrove. Con la testa. Con la coscienza. Siamo in-coscienti. Dissociati dal luogo e dal contesto.”

La contraddizione sembra stridente, ma probabilmente siamo di fronte alla forma nuova di un fenomeno che nuovo non è.

A quelli che appartengono alla mia generazione viene a volte da sorridere osservando gruppetti di giovani o adolescenti seduti su un muretto o al tavolino di un bar, totalmente immersi ognuno nel proprio smartphone e che non si scambiano né uno sguardo né una parola. Eppure, quello che stanno compiendo è un rito comunitario. Mi chiedo se ciò può somigliare a quanto avviene nella sala di lettura di una biblioteca, in cui una pluralità di individui – concentrati ciascuno sul proprio libro – sono al tempo stesso insieme e isolati. Ma l’analogia con la lettura non finisce qui: perdersi su WhatsApp o su Facebook sta diventando forse una nuova forma di evasione, probabilmente non molto diversa da quella che praticavo anch’io da ragazzino leggendo i libri di Emilio Salgari e Jules Verne, sprofondato in una poltrona più grande di me. Anche se il mio corpo era lì, io ero nel mio libro, tra i pirati della Malesia o ventimila leghe sotto i mari. 

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