L’Italia rinuncia alla sua ricchezza e al suo futuro

Un articolo di Salvatore Settis, apparso su “Il fatto quotidiano” di ieri, descrive in modo inequivocabile i dati sulla spesa italiana per la cultura, ricavati dal rapporto dell’Agenzia di Coesione sui flussi di spesa pubblici per gli anni 2015-2016: la sua analisi non ha bisogno di commenti o aggiunte.

Ne riporto qui il testo:

Il diavolo fa la pentola, ma non il coperchio. La retorica governativa insiste sui successi e i traguardi di un’Italia che (si annuncia) è uscita dalla crisi, o sta per farlo, e marcia verso un radioso futuro. Poi però c’è la doccia fredda dei dati, gli indici di sviluppo corretti al ribasso, i rating severi, gli ammonimenti da Francoforte o da Bruxelles; segue una qualche correzione di rotta mescolata a rivendicazioni e proteste, come se chiunque sollevi dubbi sull’azione di governo sia complice di losche congiure. E, ciliegina sulla torta, la periodica esibizione di muscoli: Italia, patria della bellezza! della cultura! dell’ingegno! Grandi investimenti, straordinari progressi, miracolosi risultati. Guai a chi dice che il ministero dei Beni culturali, o quello dell’Istruzione, disinvestono in tutela o in ricerca: qualcuno prontamente ricorderà che ci sono anche Regioni ed enti locali, a compensare; e insomma la spesa pubblica nel suo complesso, si predica, gareggia col resto d’Europa.

I soldi messi sul sapere continuano a calare

Ma stavolta la doccia fredda viene da Palazzo Chigi: l’Agenzia per la Coesione Territoriale, che dipende direttamente dal Presidente del Consiglio, ha diffuso il 24 luglio la sua relazione annuale, che analizza i flussi di spesa 2015-16 del settore pubblico allargato, disaggregandoli per aree geografiche e per settori. Per esempio, appunto, la cultura. È uno dei rari esercizi di riflessione sulle politiche pubbliche d’investimento e di spesa, ancor più interessante perché contiene un confronto inesorabile fra la spesa italiana e quella degli altri Paesi europei, e ricostruisce la serie storica degli interventi finalizzati allo sviluppo del Mezzogiorno in un periodo molto lungo (1951-2015). Dati nudi e crudi, raccolti con impeccabile professionalità da un osservatorio privilegiato. E la pentola del diavolo mostra tutte le sue crepe.

Scopriamo così che “nel settore cultura, nonostante alcuni recenti interventi volti ad affermare la centralità della cultura come motore per il rilancio socio-economico dei territori, gli effetti sui livelli di spesa continuano ad essere inesistenti”, anzi “la spesa pro capite complessiva rimane invariata con tendenza al decremento”, e nulla indica che “qualcosa è cambiato”, come viceversa si pretende. “Quello in cultura rimane il più grande disinvestimento settoriale che si sia avuto in Italia negli anni 2000, certamente influenzato dalle politiche di contrazione della spesa pubblica, che tuttavia nella cultura hanno pesato più che in tutti gli altri comparti”. Nel contesto europeo, “il confronto internazionale risulta impietoso: la spesa primaria per attività culturali e ricreative in rapporto al Pil risulta in Italia -nonostante lo straordinario patrimonio artistico e la ricchissima eredità culturale – decisamente inferiore a quella media dei Paesi Ue”.

Già nel 2008, dopo la cura dimagrante firmata Tremonti-Bondi, l’Italia era il fanalino di coda, con lo 0,8% del Pil; nel 2015 abbiamo gloriosamente raggiunto lo 0,7%, penultimi in classifica (dopo di noi, solo l’Irlanda). E pensare che non solo la Danimarca e la Finlandia, ma anche Slovenia, Lettonia e Bulgaria registrano una spesa superiore al 2 % del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei sono comunque sopra l’1 %. Anche la quota spese delle famiglie italiane in attività culturali e ricreative (6,6 %) non è in linea con l’Europa (media 8,5%, con picchi oltre il 10% in Svezia, Olanda, Danimarca, ma anche Malta); meno che in Italia si spende solo in Romania, Portogallo, Grecia e Irlanda. Queste cifre scoraggianti diventano ancor più deprimenti se andiamo a guardare le differenze fra Centro-Nord (71,2 % della spesa totale) e Mezzogiorno (28,8 %): quote significativamente sbilanciate in rapporto alla popolazione residente, sei punti-percentuale a sfavore del Sud. Eppure ci vien detto che asse delle politiche pubbliche è “il raggiungimento di una quota spesa nel Mezziogiorno superiore o almeno pari alla rispettiva quota di popolazione”. Viceversa, “il crollo di tutta la spesa pubblica a finalità strutturale dal 2008 in avanti” ha pesantemente colpito il Sud, accentuandone il divario dal resto d’Italia.

È un divario che si è ormai radicato profondamente, fino all’attuale “disparità strutturale di dotazioni effettive e di servizi nel Mezzogiorno: i treni sono più vecchi e più lenti, la rete ad alta velocità costituisce solo il 5,6 % della rete complessiva, la presenza turistica per abitante è pari a 3,7 contro i 7,9 del Centro-Nord, la distribuzione dell’acqua è irregolare per il 18,3% delle famiglie a fronte del 4,9% del Centro-Nord, i Comuni che dispongono di strutture per l’infanzia sono meno della metà che nel Centro-Nord”. In questo quadro desolante, si salva forse la spesa in cultura? No. “Il crollo è comune alle varie Regioni, ma nel Centronord si passa da 65 euro pro capite a 24, mentre nel Sud si passa da 43 a 18”, e quanto alle decantate “risorse aggiuntive”, i dati implacabilmente confermano che “le risorse aggiuntive sono risultate sostitutive della spesa ordinaria e settoriale”.

Il disastro vero c’è da Roma in giù

Se possibile ancor più drammatico è il generale declino di ogni investimento nel Mezzogiorno, qui analizzato nella sequenza cronologica 1951-2015. I dati di spesa non lasciano spazio al dubbio: dallo 0,68% del Pil nel decennio 1951-60 si passa allo 0,85% negli anni Settanta, fino al crollo del quinquennio 2011-2015, quando gli investimenti calano allo 0,15%, anzi “negli ultimi anni raggiungono un peso inferiore allo 0,1 % rispetto al Pil”. In altri termini, i nostri governi sembrano aver rinunciato a qualsiasi obiettivo di riequilibrio fra le diverse aree del Paese. Eppure, nelle previsioni del DPEF 2007-2011 si era stabilito su questo fronte un livello di investimenti ideale di almeno lo 0,6% del Pil, e comunque non inferiore allo 0,4%.

Sarebbe bello, in mezzo a tante discussioni su come ricomporre una sinistra di governo degna di tal nome, che dati come questi venissero discussi per costruire una piattaforma programmatica. E messi in tensione con altri dati, per esempio l’immensa evasione fiscale (la terza al mondo dopo Messico e Turchia) o la disoccupazione giovanile che ha il suo record europeo in Calabria (58,7%), superata solo dalle enclaves spagnole in terra d’Africa. O, per parlare di cultura, la carenza di politiche pubbliche indirizzate alle attività culturali degli immigrati: anche qui l’Italia brilla per un terrificante 55,5% di immigrati che nell’intero 2016 non ha partecipato a nessuna forma di attività culturale (dati Istat). Verrà mai il momento in cui il pulviscolo delle sinistre anziché discutere solo di alleanze e collegi elettorali vorrà accorgersi di quel che accade in Italia.

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