Un paese senza sapere

Oggi al Salone del libro di Torino abbiamo discusso con Gino Roncaglia e Mario Ricciardi del mio ultimo libro, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, edito da Laterza. Si è parlato di tante questioni, prendendo spunto dal libro e andando anche al di là di ciò che ho scritto: della relazione esistente fra i dati sull’ignoranza e le scelte (o non scelte) che la nostra classe dirigente fa da decenni; del rapporto povertà/ricchezza e degli effetti che le disuguaglianze possono avere sulla coesione sociale e sull’assetto complessivo della società italiana; del discredito che accompagna il mondo della scuola, dell’università e della ricerca; della necessità di disporre di competenze adeguate se vogliamo vincere la sfida della complessità e sfruttare le opportunità che la rete ci mette a disposizione; e di molto altro ancora. 

Ma desidero approfittare dell’occasione per avanzare una considerazione, scaturita dal modo in cui il volume è stato proposto in occasione del Salone. L’editore, dovendo classificare il volume nel suo catalogo tematico, lo ha etichettato con “attualità culturale e di costume”. A me sembra una scelta appropriata: il basso livello di competenze della popolazione adulta, lo scarso numero di laureati e diplomati, l’assenza di una politica per l’istruzione e per la ricerca, la debolezza delle strutture che offrono servizi di accesso alla conoscenza (leggi: le biblioteche), e cioè tutti gli argomenti affrontati in questo volumetto mi pare che rappresentino tanti nodi irrisolti dell’attualità culturale del nostro Paese. Da anni sento le accorate denunce di Tullio De Mauro (che mi darà il piacere di presentare il libro il 17 giugno a Roma presso lo spazio Fandango di via dei Prefetti) contro l’ignoranza degli italiani: devo confessare che fino a qualche tempo fa, pur rispettando il suo rigore di studioso, pensavo che esagerasse un po’ quando diceva che il 70% dei nostri concittadini è affetto da analfabetismo funzionale. Consultando le statistiche provenienti da indagini e da confronti internazionali ho trovato conferma di questi dati e, ciò che li rende più veri, ho visto che essi sono perfettamente coerenti con un quadro complessivo di una società (e mi riferisco a tutte le sue componenti, compresi i decisori politici e il ceto imprenditoriale) che non tiene in alcun conto i valori delle competenze e della conoscenza: l’Italia è un paese “senza sapere”, perché non sa che farsene.

Un paese consapevole dei suoi ritardi e davvero desideroso di adeguare la qualità del capitale umano alle sfide della contemporaneità investirebbe invece nell’istruzione e nei servizi di accesso alla conoscenza.

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